Visualizzazione post con etichetta Documenti. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Documenti. Mostra tutti i post
martedì 25 luglio 2017
mercoledì 12 luglio 2017
Il tempio di Gerusalemme
Da Wikipedia:
Descrizione del tempio:
Il Debir: l'oracolo o il Sancta Sanctorum (Re I 6:19; 8:6), chiamato anche "sala interna". Misurava 20 cubiti in lunghezza, larghezza e altezza. La differenza tra questa altezza e quella del Tempio (30 cubiti) è solitamente spiegata con la soprelevazione del Sancta Sanctorum, come la cella di altri templi antichi. Era cassonato in legno di cedro (Re I 6:16), e i muri ed il pavimento rivestiti d'oro. Conteneva due cherubini in legno d'olivo, ciascuno alto 10 cubiti (Re I 6:16, 20, 21, 23-28) e ognuno con ali aperte larghe 10 cubiti; dato che erano affiancati, ciascuno toccava una parete e le ali si incontravano al centro. Una porta a due battenti lo divideva dal Luogo Santo (Cronache II 4:22); e così un velario di lino blu, porpora e scarlatto (Cronache II 3:14; Vedi anche Esodo 26:33). Non aveva finestre (Re I 8:12). Secondo alcuni, era considerato la residenza di Dio.
L'Echal: il Luogo Sacro, Re I 8:8-10, chiamato anche la "casa maggiore" (Cronache II 3:5) e il "Tempio" (Re I 6:17); il nome significa anche Palazzo. Aveva larghezza e altezza uguali al Sancta Sanctorum, ma lunghezza 40 cubiti. I muri erano rivestiti di legno di cedro, con intarsi di cherubini, palme e fiori, rivestiti d'oro. Catene d'oro marcavano la separazione dal Sancta Sanctorum. Il pavimento era in legno di abete rivestito anche questo d'oro. Stipiti in legno d'olivo reggevano porte a battenti di abete. Le porte del Sancta Sanctorum erano di legno di olivo. Su ambedue le porte erano intarsiati cherubini, palme e fiori, rivestiti d'oro (Re I 6:15 segg.)
L'Ulam: il portico est di ingresso al Tempio (Re I 6:3; Cronache II 3:4; 9:7). Lungo 20 cubiti (come la larghezza del Tempio) e profondo 10 cubiti (Re I 6:3). Cronache II 3:4 aggiunge la sorprendente notizia che il portico era alto 120 cubiti, cosa che lo renderebbe una torre a tutti gli effetti. Non si sa se un muro lo separasse dalla camera successiva. Nel portico vi erano due colonne, dette Jachin e Boaz (1 Re 7:21; Re II 11:14; 23:3), alte 18 cubiti e sormontate da capitelli con gigli, alti 5 cubiti.
Le camere, costruite attorno al tempio sui lati meridionale, occidentale e settentrionale (Re I 6:5-10). Formavano parte della costruzione ed erano usate come magazzini. Erano presumibilmente alte un piano; due ulteriori livelli sono stati aggiunti, forse, più tardi.
I cortili:
Secondo la bibbia, attorno al Tempio vi erano:
Il cortile dei sacerdoti (Cronache II 4:9), detto corte interna (Re I 6:36), separata dallo spazio prospiciente da un muro di pietra, su cui poggiavano travi di cedro (Re I 6:36).
La grande corte, che circondava tutto il Tempio (Cronache II 4:9). Qui si riuniva il popolo per la preghiera (Geremia 19:14; 26:2).
Arredamenti e tesori:
Il cortile dei sacerdoti conteneva l'altare dei sacrifici (Cronache II 15:8), Il lavacro bronzeo (4:2-5, 10), e dieci lavatoi (Re I 7:38, 39).
Da Re II 16:14 si evince che vi era un altare di bronzo di fronte al Tempio; Cronache II 4:1 lo descrive come un parallelepipedo a base quadrata larga 20 cubiti e alto 10.
Il lavacro bronzeo, largo 10 cubiti (1 cubito = 45 cm) e profondo 5, era supportato da dodici buoi di bronzo (Re I 7:23-26). Il Libro dei Re lo definisce come avente capacità di duemila bat (1 bat = 45 litri); le Cronache portano la capacità a tremila (Cronache II 4:5-6) e ne descrive la funzione: consentire le abluzioni ai sacerdoti.
I lavatoi, ognuno dei quali conteneva quaranta bagni (Re I 7:38), appoggiava su stanghe di sollevamento di bronzo, con ruote, e decorate con figure di leoni, cherubini e palme Questi recipienti suscitavano l'ammirazione degli Ebrei. Il redattore del Libro dei Re descrive con entusiasmo i più minuti dettagli. (Re I 7:27-37).
Giuseppe Flavio nelle Antichità giudaiche afferma che questi erano di oricalco.
Secondo Re I 7:48 in fronte al Sancta Sanctorum vi era un altare per l'incenso e una tavola per il pane. La tavola era d'oro, come i cinque candelabri su ciascuno dei suoi lati. Gli accessori dei candelabri - smoccolatoio e bracieri - erano d'oro, come le cerniere delle porte.
giovedì 22 giugno 2017
L'Altare
Da Wikipedia:
Descrizione:
Un altare è un luogo in cui si compie un sacrificio o rito religioso.
In base alla legge mosaica gli altari antichi dovevano essere costituiti da pietre e da terra non toccati da strumenti ferrosi (Esodo XX, 24-25). La Bibbia descrive anche l'esistenza di altari portatili, costituiti di legno rivestito con rame e portanti agli angoli specie di corni, la cui origine può risalire ad un simbolo sacrale.
In Chiese cristiane come quelle cattolica, vetero-cattolica, ortodossa o anglicana, siccome l'Eucaristia mantiene il carattere sacrificale e il pane eucaristico è considerato il Corpo di Gesù Cristo, l'altare ha mantenuto un'importanza considerevole, tanto da essere centrale nell'edificio religioso.
La Chiesa cattolica riserva un particolare onore all'altare, poiché su di esso celebra la ripresentazione dell'unico sacrificio compiuto da Cristo (cosiddetta oblazione pura e perfetta). Per questa ragione, il sacerdote lo bacia e lo incensa in segno di venerazione, in particolari momenti delle celebrazioni liturgiche; l'altare rappresenta inoltre sia la mensa dell'ultima cena, sia il patibolo della croce, sul quale Cristo immolò se stesso. Il termine "ripresentazione" è caratteristico della dottrina cattolica, secondo la quale la celebrazione dell'Eucaristia non è una mera ripetizione incruenta del sacrificio di Cristo, bensì proprio la riproposizione di quell'unico Sacrificio da lui compiuto. In altri termini, il sacerdote cattolico non celebra un "nuovo" sacrificio, bensì, nel mistero del Sacramento eucaristico, celebra "in persona Christi", ossia partecipa alla persona di Cristo che offre Se stesso nel sacrificio della croce. Gesù il Cui sacrificio viene ripresentato, è tuttavia già il Cristo risorto Che ha ripreso la vita che aveva volontariamente dismesso.
Sia gli ortodossi, che i cattolici, ma anche armeni e copti, spesso hanno edificato altari nelle prossimità delle tombe di martiri. Esempio tipico è la basilica di San Pietro in Vaticano, edificata intorno all'altare costruito sulla tomba dell'apostolo cristiano. Infatti ai tempi delle catacombe, la Messa si celebrava sulle tombe dei martiri e da questo uso si diffuse l'altare a cassa. Un altro modello di altare delle origini, fu quello a tavola, trasportabile, e diffusissimo fino all'editto di Costantino.
Dal VI secolo si è sviluppata l'usanza di traslare le reliquie e quindi anche l'altare tombale ha subito una trasformazione perché è stato aggiunto anche un loculo per le reliquie o una saletta al di sotto. In questo periodo viene introdotta la fenestella confessionis, una sorta di porticina o grata, attraverso la quale si rende possibile l'inserimento di nuovi frammenti di reliquie.
L'altare bizantino è stato un modello molto particolare, infatti è situato al centro della chiesa, per effettuare meglio i vari riti e le cerimonie.
Significato cristiano:
L'altare cristiano è il successore e la sintesi degli altari ebrei e la sua sublimità deriva dal suo conformarsi al proprio archetipo celeste, l'altare della Gerusalemme celeste su cui giace, "fin dalla fondazione del mondo [...] l'Agnello immolato" (Apocalisse di Giovanni 13, 8). Nel tempio di Gerusalemme vi erano vari altari. Tra il sagrato e il Santo si trovava l'altare degli olocausti - dove quotidianamente si offriva l'agnello -; nel Santo erano installati l'altare dei profumi e la tavola dei pani dell'offerta; infine nel sancta sanctorum vi era una pietra sulla quale era appoggiata l'arca dell'Alleanza. L'altare cristiano è sintesi di questi differenti altari: esso è l'altare degli olocausti dove è sacrificato l'Agnello di Dio e, nel contempo, la tavola dei pani dell'offerta, cioè del Pane eucaristico; esso è l'altare dei profumi in cui si brucia l'incenso, come emerge chiaramente dal rituale romano. Infine, dal momento che sostiene il tabernacolo, l'altare maggiore ricopre il ruolo di pietra che sosteneva l'Arca. L'Arca conteneva le Tavole della legge, la Verga di Aronne e una pozione di manna; nel Tabernacolo cristiano è posta l'autentica Manna, il "Pane vivo disceso dal Cielo". C'è anche un simbolismo che associa l'altare alla montagna. I gradini dell'altare sono simbolici. Essi ricordano che l'altare sorge sulla "Santa Montagna". L'immagine della Montagna Santa è presente dovunque nella Bibbia e non solo in essa, anche in altre religioni. Nella Bibbia le montagne sante sono numerose poiché ciascuna tappa della Rivelazione ha per luogo una montagna dalla quale Dio parla al profeta: Mosè sul Monte Sinai; il profeta Elia sul Carmelo; Abramo e Giacobbe sul Garizim; Salomone sul Moria, ecc. Cristo, per apparire nello splendore della sua gloria, ha scelto una montagna, il Tabor; è asceso dal monte degli Ulivi; infine è morto su una montagna, il Calvario.
I primi altari erano di legno, piccoli, di forma rotonda, o a sigma, o a ferro di cavallo. Successivamente furono costruiti in pietra per simboleggiare Cristo (San Paolo, 1 Corinzi 10, 3-4); erano quadrati per simboleggiare che all'altare-mensa eucaristica si nutrono i popoli delle quattro parti del mondo.
San Giovanni Crisostomo in una sua Catechesi (Catechesi 3) scrive: " Mosè levava le mani al cielo facendone scendere la manna, pane degli angeli. Il nostro Mosè, Cristo, leva le mani al cielo e ci procura un cibo eterno. Il primo percosse la pietra, facendone scaturire torrenti d'acqua. Questi tocca la mensa, percuote la mistica tavola e fa sgorgare le fonti dello Spirito. Ecco il motivo per il quale la mensa è posta al centro [della chiesa], come una sorgente, perché i greggi accorrano da tutte le parti ad essa e si dissetino alle sue acque salutari".
mercoledì 31 maggio 2017
Simbolo degli Apostoli
Io credo in Dio, Padre onnipotente,
Creatore del cielo e della terra.
E in Gesù Cristo, Suo unico Figlio, nostro Signore,
il quale fu concepito di Spirito Santo,
nacque da Maria Vergine,
patì sotto Ponzio Pilato,
fu crocifisso,
morì e fu sepolto; discese agli inferi;
il terzo giorno risuscitò da morte;
salì al cielo,
siede alla destra di Dio Padre onnipotente:
di là verrà a giudicare i vivi e i morti.
Credo nello Spirito Santo,
la santa Chiesa cattolica,
la comunione dei santi,
la remissione dei peccati,
la risurrezione della carne,
la vita eterna.
Amen.
Symbolum Apostolicum
Credo in Deum Patrem omnipoténtem,
Creatorem caeli et terrae,
et in Iesum Christum, Filium Eius unicum, Dominum nostrum,
qui concéptus est de Spíritu Sancto,
natus ex Maria Virgine,
passus sub Póntio Piláto,
crucifixus, mórtuus, et sepúltus, descéndit ad ínferos,
tértia die resurréxit a mórtuis,
ascéndit ad caelos,
sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis,
inde ventúrus est iudicáre vivos et mórtuos.
Et in Spíritum Sanctum,
sanctam Ecclésiam cathólicam,
sanctórum communiónem,
remissiónem peccatórum,
carnis resurrectiónem,
vitam aetérnam.
Amen.
Da Wikipedia:
Il Credo o Simbolo degli apostoli (Symbolum apostolorum) è un'antichissima formula di fede della religione cristiana. Fino al XV secolo venne attribuito agli stessi apostoli.
Scritti dei secoli V e VI indicano che questa preghiera, nei primi secoli della Chiesa, era considerata talmente sacra da non poter essere neppure scritta, ma soltanto memorizzata; questo spiegherebbe la mancanza di fonti scritte dirette antiche in favore di semplici allusioni o rimandi e di una tradizione orale.
Si sa inoltre che anche nella Chiesa antica i battezzandi pronunciavano una formula di professione di fede, ma non ne abbiamo traccia scritta. Dato che non abbiamo ragione di credere che un nuovo Credo abbia sostituito quello apostolico prima del Concilio di Nicea, si può ritenere che la formula usata fosse quella riportata in questa versione.
Si trova attestato fin dal IV secolo in Ambrogio (in una lettera inviata nel 393 a papa Siricio dal Sinodo dei Vescovi tenuto a Milano) e in Rufino (in una lettera inviata intorno al 400); all'inizio del VI secolo è presentato nella sua formula definitiva da san Cesario di Arles.
lunedì 29 maggio 2017
Salve Regina
Salve, Regina,
madre di misericordia,
vita, dolcezza e speranza nostra, salve.
A te ricorriamo,
esuli figli di Eva;
a te sospiriamo, gementi e
piangenti in questa valle di lacrime.
Orsù dunque, avvocata nostra,
rivolgi a noi gli occhi
tuoi misericordiosi.
E mostraci, dopo questo esilio, Gesù,
il frutto benedetto del tuo Seno.
O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!
Salve, Regína,
Mater misericórdiae,
vita, dulcédo et spes nostra, salve.
Ad te clamámus,
éxsules filii Evae.
Ad te suspirámus geméntes et flentes
in hac lacrimárum valle.
Eia ergo, advocáta nostra,
illos tuos misericórdes óculos
ad nos convérte.
Et Iesum, benedíctum fructum
ventris tui,
nobis, post hoc exsílium, osténde.
O clemens, o pia, o dulcis Virgo María!
La "Salve Regina" è una delle 4 antifone mariane (le altre antifone mariane sono: Regina Coeli, Ave Regina Coelorum e Alma Redemptoris Mater).
L'origine della preghiera risale all'XI secolo, ma la sua composizione non è certa. La tradizione più diffusa attribuisce la stesura di quest'antifona al monaco Ermanno di Reichenau. Viene anche attribuita a papa Gregorio VII, a sant'Anselmo da Baggio (morto nel 1086), a san Pietro di Mezonzo, vescovo di Iria Flavia o, alternativamente a San Bernardo durante la sua permanenza all'eremo dei Santi Jacopo e Verano alla Costa d'acqua. Probabilmente a san Bernardo appartiene solo la composizione dell'ultimo verso "o clemens, o pia, o dulcis virgo Maria".
Alberico delle Tre Fontane attribuisce la paternità ad Ademaro di Monteil.
Nei manoscritti più antichi non compare né il "Mater", che sarebbe stato aggiunto nel XVI sec, per cui in origine era "Regina misericordiae" (com'è ancora nella versione in uso nel remoto rito mozarabico), né il "Virgo", questo però introdotto molto presto. Talora si può sentire tramandato un "vitae dulcedo", com'è cantata ad esempio alla Grande Chartreuse.
La forma attuale è stata formalizzata dall'Abbazia di Cluny nel XII secolo.
I Domenicani hanno introdotto la Salve Regina nel 1221 come inno da cantare immediatamente dopo la compieta e mentre si va in processione al dormitorio. I Cistercensi la utilizzano dal 1251. I Certosini la cantano ogni giorno, dal XII secolo, ai vespri.
Nel 1250 papa Gregorio IX la approvò e prescrisse il suo canto a conclusione della preghiera di compieta.
Tradizionalmente viene anche recitata a conclusione del rosario.
La Salve Regina è normalmente utilizzata nelle funzioni della Chiesa cattolica, in particolare nei giorni vicini alle feste dell'Assunta e della Immacolata concezione.
I dieci versi sono motivo di altrettanti capitoli dell'opera Le Glorie di Maria di Sant'Alfonso Maria de' Liguori del 1750.
Il tema musicale della forma gregoriana del testo è considerato originario dell'XI secolo e rappresenta uno degli esempi più antichi di musica sacra tuttora in uso.
mercoledì 24 maggio 2017
Amen
Da Wikipedia:
Amen è una parola ebraica: in ebraico tiberiense si scrive אמן (’Āmēn), in ebraico standard אמן (Amen), in arabo آمين (’Āmīn): è una dichiarazione o affermazione che si trova nell'ebraico biblico e nel Corano. È sempre stata usata nel giudaismo, e da lì è stata adottata nella liturgia cristiana come formula conclusiva per preghiere e inni.
L'avverbio ebraico אמן ámén significa soprattutto "certamente", "in verità" o meglio "così sia". Etimologicamente è connesso con il verbo אמן ámán, che significa (in forma base, cioè qal) "educare". Importanti sono però i significati derivati: nel nifal significa "esser certo, sicuro", "esser veritiero, vero", per cui anche "resistere", nella forma di hifil credere. Il sostantivo derivato אמת emet significa "ciò che è stabile e fermo", quindi "verità". In questo senso appare per esempio nel Nuovo Testamento, quando Gesù enuncia principi fondamentali, che introduce con questa parola "amen": "Amen, amen, dico a voi" - con il significato: "In verità vi dico", "Ciò che dico, è vero e certo".
Nella liturgia cristiana è usata come risposta dell'assemblea alla fine delle preghiere liturgiche: ha il significato di esprimere l'assentimento per ciò che si è detto e per augurio che la preghiera sia esaudita. Il suo significato si lega al concetto di affidamento.
Il sacerdote polacco Jarosław Cielecki ha affermato che San Giovanni Paolo II, un istante prima della morte, pronunciò questa parola con grande sforzo il 2 aprile 2005
lunedì 22 maggio 2017
Cantico di Zaccaria
Benedetto il Signore Dio d'Israele, *
perché ha visitato e redento il suo popolo,
e ha suscitato per noi una salvezza potente *
nella casa di Davide, suo servo,
come aveva promesso *
per bocca dei suoi santi profeti d'un tempo:
salvezza dai nostri nemici, *
e dalle mani di quanti ci odiano.
Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri *
e si è ricordato della sua santa alleanza,
del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, *
di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
di servirlo senza timore, in santità e giustizia *
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo *
perché andrai innanzi al Signore
a preparargli le strade,
per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza *
nella remissione dei suoi peccati,
grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, *
per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge
per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre *
e nell'ombra della morte
e dirigere i nostri passi *
sulla via della pace.
Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio, e ora e sempre *
nei secoli dei secoli.
Amen
Da Wikipedia:
perché ha visitato e redento il suo popolo,
e ha suscitato per noi una salvezza potente *
nella casa di Davide, suo servo,
come aveva promesso *
per bocca dei suoi santi profeti d'un tempo:
salvezza dai nostri nemici, *
e dalle mani di quanti ci odiano.
Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri *
e si è ricordato della sua santa alleanza,
del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, *
di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
di servirlo senza timore, in santità e giustizia *
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo *
perché andrai innanzi al Signore
a preparargli le strade,
per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza *
nella remissione dei suoi peccati,
grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, *
per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge
per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre *
e nell'ombra della morte
e dirigere i nostri passi *
sulla via della pace.
Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio, e ora e sempre *
nei secoli dei secoli.
Amen
Da Wikipedia:
Nel Vangelo secondo Luca, Zaccaria era un sacerdote della classe di Abia (l'ottava delle 24 classi in cui i sacerdoti ebrei erano ripartiti). Secondo il racconto evangelico egli e sua moglie Elisabetta erano ormai di età avanzata quando Zaccaria, mentre svolgeva il suo servizio nel Tempio di Gerusalemme, ebbe la visione dell'arcangelo Gabriele, il quale gli annunciò la prossima nascita di un figlio (fino a quel momento non ne avevano avuti). Poiché Zaccaria non gli credette, per convincerlo Gabriele lo fece diventare muto fino a che il suo annuncio non si fosse adempiuto.
Otto giorni dopo la nascita del bambino, si svolse il rito della circoncisione: in questa occasione, come voleva la tradizione, veniva imposto il nome al bambino. Zaccaria, che non poteva parlare, si fece dare una tavoletta e vi scrisse il nome di Giovanni, come l'angelo gli aveva ordinato. In quel momento, essendosi compiuto l'annuncio, Zaccaria riacquistò la parola e tra la meraviglia dei presenti intonò un inno di lode a Dio, il cosiddetto Cantico di Zaccaria.
Secondo la tradizione, il villaggio in cui vivevano Zaccaria ed Elisabetta (che il vangelo non nomina, indicando solo che si trovava sulle montagne della Giudea) era l'attuale Ain Karem, ad alcuni chilometri da Gerusalemme. Qui sorgono una chiesa dedicata a san Giovanni Battista e una dedicata alla Visitazione.
venerdì 19 maggio 2017
Padre Nostro - Pater Noster
Padre nostro, che sei nei cieli,
Πάτερ ἡμῶν ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς
ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου·
ἐλθέτω ἡ βασιλεία σου·
γενηθήτω τὸ θέλημά σου,
ὡς ἐν οὐρανῷ καὶ ἐπὶ τῆς γῆς·
τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον δὸς ἡμῖν σήμερον·
καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα ἡμῶν,
ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφίεμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν·
καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν,
ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ.
[Ὅτι σοῦ ἐστιν ἡ βασιλεία καὶ ἡ δύναμις καὶ ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας·]
ἀμήν.
Traslitterazione:
Pater hēmōn, ho en tois ouranois
hagiasthētō to onoma sou;
elthetō hē basileia sou;
genethetō to thelēma sou,
hōs en ouranō, kai epi tēs gēs;
ton arton hēmōn ton epiousion dos hēmin sēmeron;
kai aphes hēmin ta opheilēmata hēmōn,
hōs kai hēmeis aphiemen tois opheiletais hēmōn;
kai mē eisenenkēs hēmas eis peirasmon,
alla rhusai hēmas apo tou ponērou.
[Hoti sou estin hē basileia, kai hē dynamis, kai hē doxa eis tous aiōnas;]
Amēn.
Traduzione latina (Vulgata):
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
Amen.
Originale greco:
ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου·
ἐλθέτω ἡ βασιλεία σου·
γενηθήτω τὸ θέλημά σου,
ὡς ἐν οὐρανῷ καὶ ἐπὶ τῆς γῆς·
τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον δὸς ἡμῖν σήμερον·
καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα ἡμῶν,
ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφίεμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν·
καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν,
ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ.
[Ὅτι σοῦ ἐστιν ἡ βασιλεία καὶ ἡ δύναμις καὶ ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας·]
ἀμήν.
Pater hēmōn, ho en tois ouranois
hagiasthētō to onoma sou;
elthetō hē basileia sou;
genethetō to thelēma sou,
hōs en ouranō, kai epi tēs gēs;
ton arton hēmōn ton epiousion dos hēmin sēmeron;
kai aphes hēmin ta opheilēmata hēmōn,
hōs kai hēmeis aphiemen tois opheiletais hēmōn;
kai mē eisenenkēs hēmas eis peirasmon,
alla rhusai hēmas apo tou ponērou.
[Hoti sou estin hē basileia, kai hē dynamis, kai hē doxa eis tous aiōnas;]
Amēn.
Traduzione latina (Vulgata):
Pater Noster qui es in cælis:
sanctificetur nomen tuum;
adveniat regnum tuum;
fiat voluntas tua,
sicut in cælo, et in terra.
Panem nostrum cotidianum
da nobis hodie;
et dimítte nobis debita nostra,
sicut et nos dimittimus
debitoribus nostris;
et ne nos inducas in tentationem;
sed libera nos a malo.
Amen.
sanctificetur nomen tuum;
adveniat regnum tuum;
fiat voluntas tua,
sicut in cælo, et in terra.
Panem nostrum cotidianum
da nobis hodie;
et dimítte nobis debita nostra,
sicut et nos dimittimus
debitoribus nostris;
et ne nos inducas in tentationem;
sed libera nos a malo.
Amen.
Da Wikipedia:
- Pane quotidiano: Il termine greco epiousion rimaneva, già per Origene, di dubbia interpretazione. Esso potrebbe essere tradotto letteralmente "supersostanziale" ("al di sopra della ousìa", dell'essenza), ma anche più semplicemente potrebbe significare "quotidiano" (la razione che sta sopra il piatto di ogni giorno). Da questa ambiguità del testo greco originale derivano le differenti traduzioni della parola nelle diverse lingue moderne.
- Rimetti a noi i nostri debiti (pronunciato da Gesù Cristo): Siccome la preghiera chiede il perdono dei peccati, alcuni si sono chiesti se Gesù l'avesse proposta per sé stesso o per i suoi discepoli. Nel primo caso parrebbe in contrasto con il dogma della impeccabilità di Gesù, e quindi tradizionalmente l'espressione è stata interpretata come una richiesta formulata per i discepoli. Non ci indurre (inducas) in tentazione: Le traduzioni nelle varie lingue moderne non sempre rendono al meglio il significato originale di questa richiesta; in particolare la parola italiana "indurre" è un calco fedele del latino inducas, a sua volta traduzione del greco. La frase probabilmente va interpretata come: «Non permettere che cadiamo quando siamo tentati»: la preghiera chiederebbe dunque la forza necessaria per vincere la tentazione, piuttosto che di essere esentati dalla prova che, oltre tutto, giungerebbe da Dio stesso. Tuttavia il latino in-ducas e il greco eis-enenkes riflettono anche un aspetto peculiare della teologia biblica, in cui l'affermazione della unicità di Dio e della sua azione nel mondo porta alla drammatica consapevolezza che sia Dio stesso a "condurre" il credente "dentro nella prova" (come è narrato, per esempio, nel Libro di Giobbe). La versione presente nel lezionario pubblicato nel dicembre 2007 dalla Conferenza Episcopale Italiana, ispirandosi a quello che poteva essere un originale aramaico, propone la traduzione «non abbandonarci alla tentazione»[4]. Alcuni vangeli apocrifi[senza fonte] hanno un'altra forma per la frase in questione, argomentando implicitamente che Dio non può tentare i suoi fedeli.
- Liberaci dal male: Sia il latino malo (ablativo), sia il greco ponerou (genitivo), non permettono di distinguere se si tratti di un sostantivo neutro (che si riferisca al "male" come concetto astratto) o maschile (il "maligno", cioè il tentatore, il diavolo, Satana). Entrambe le interpretazioni rimangono, dunque, legittime.
giovedì 4 maggio 2017
L'Eternità di Dio secondo Sant'Agostino
Da "Le Confessioni" - Libro primo
6. 9. [...] Signore, sempre vivo e di cui nulla muore perché prima dell'inizio dei secoli e prima di ogni cosa cui pure si potesse dare il nome di "prima" tu sei e sei Dio e Signore di tutte le cose, create da te, e in te perdurano stabili le cause di tutte le cose instabili, e di tutte le cose mutabili si conservano in te immutabili i princìpi, e di tutte le cose irrazionali e temporali sussistono in te sempiterne le ragioni [...]
mercoledì 3 maggio 2017
La presenza di Dio nell'Universo secondo Sant'Agostino
Da "Le Confessioni" - Libro primo
3. 3. Ma cielo e terra ti comprendono forse, perché tu li colmi? o tu li colmi, e ancora sopravanza una parte di te, perché non ti comprendono? E dove riversi questa parte che sopravanza di te, dopo aver colmato il cielo e la terra? O non piuttosto nulla ti occorre che ti contenga, tu che tutto contieni, poiché ciò che colmi, contenendo lo colmi? Davvero non sono i vasi colmi di te a renderti stabile. Neppure se si spezzassero, tu ti spanderesti; quando tu ti spandi su di noi 12, non tu ti abbassi, ma noi elevi, non tu ti disperdi, ma noi raduni. Però nel colmare, che fai, ogni essere, con tutto il tuo essere lo colmi. E dunque, se tutti gli esseri dell'universo non riescono a comprendere tutto il tuo essere, comprendono di te una sola parte, e la medesima parte tutti assieme? oppure i singoli esseri comprendono una singola parte, maggiore i maggiori, minore i minori? Dunque, esisterebbero parti di te maggiori, altre minori? o piuttosto tu sei intero dappertutto, e nessuna cosa ti comprende per intero?
martedì 11 aprile 2017
Linea Temporale da Abramo all'Esodo
1850 a.C. | 1800 a.C. | 1750 a.C. | 1700 a.C. | 1650 a.C. | 1600 a.C. | 1550 a.C. | 1500 a.C. | ||
Governatori Hyksos minori | |||||||||
Principi Hyksos di Tebe | |||||||||
Faraoni Hyksos | XVIII Dinastia a Tebe | ||||||||
Abramo – Isacco - Giacobbe – Giuseppe | |||||||||
Prosperità in Egitto | Inizio cattività in Egitto | ||||||||
1450 a.C. | 1400 a.C. | 1350 a.C. | 1300 a.C. | 1250 a.C. | 1200 a.C. | ||||
XVIII Dinastia a Tebe | XIX Dinastia a Pi-Ramses | ||||||||
Cattività in Egitto | Persecuzione | Esodo | |||||||
venerdì 7 aprile 2017
Deserto di Paran
Liberamente tratto da Wikipedia:
L'antico Deserto di Paran biblico si potrebbe identificare con una zona del deserto del Negev che andava presumibilmente da Beer Karkom fino a Ein Kuderait, nell'area di Cades. Nel suo comprensorio si trovava anche Har Karkom, da taluni studiosi considerato il Monte Sinai della Bibbia. Le attuali carte topografiche posizionano pertanto il Deserto di Paran in Israele, subito a nord del Golfo di Aqaba, tra Eilat e Mitzpe Ramon, ai piedi del versante meridionale di Har Karkom.
Citazioni:
"Queste sono le parole che Mosè rivolse a tutto Israele oltre il Giordano, nel deserto, nella valle dell`Araba, di fronte a Suf, tra Paran, Tofel, Laban, Cazerot e Di-Zaab." (Deuteronomio 1,1)
"Gli Israeliti partirono dal deserto del Sinai secondo il loro ordine di marcia; la nube si fermò nel deserto di Paran." (Numeri 10,12)
"Maria dunque rimase isolata, fuori dell'accampamento sette giorni; il popolo non riprese il cammino, finché Maria non fu riammessa nell'accampamento. Poi il popolo partì da Caserot e si accampò nel deserto di Paran. Il Signore disse a Mosè: «Manda uomini a esplorare il paese di Canaan che sto per dare agli Israeliti. Mandate un uomo per ogni tribù dei loro padri; siano tutti dei loro capi». Mosè li mandò dal deserto di Paran, secondo il comando del Signore; quegli uomini erano tutti capi degli Israeliti." (Numeri 12:15,13:3)
"Alla fine di quaranta giorni tornarono dall'esplorazione del paese e andarono a trovare Mosè e Aronne e tutta la comunità degli Israeliti nel deserto di Paran, a Kades; riferirono ogni cosa a loro e a tutta la comunità e mostrarono loro i frutti del paese." (Numeri 13:25,13:26)
"Samuele morì, e tutto Israele si radunò e lo pianse. Lo seppellirono presso la sua casa in Rama. Davide si alzò e scese al deserto di Paran." (I libro Samuele 25,1)
"Essi partirono da Madian e andarono a Paran; presero quindi con sé degli uomini di Paran e giunsero in Egitto dal Faraone, re d'Egitto, il quale diede a Hadad una casa, gli assicurò il sostentamento e gli diede anche terreni." (I libro Re 11,18)
giovedì 6 aprile 2017
Har Karkom e Monte Sinai
Liberamente tratto da Wikipedia:
Har Karkom come possibile candidato per il Monte Sinai:
Critiche
Har Karkom (in ebraico: Montagna di zafferano) o Jabal Ideid o Gebel Ideid (in arabo: Montagna delle celebrazioni o Montagna delle moltitudini) è una montagna posta nel sud-ovest del deserto del Negev in Israele. È uno dei siti in cui si ritiene di localizzare il Monte Sinai biblico.
Il complesso è formata da calcari giallastri. È visibile a grande distanza da sud e da est: dai monti Edom, distanti 70 km e anche dalle alture della Giordania. Domina una zona desertica del Negev, nota come deserto di Paran (Midbar Paran in ebraico).
Ha due basse cime ravvicinate che si innalzano da un ampio altopiano sommitale (4 x 2,5 km): la cima nord-ovest (detta anche "cima femminile", larga e tondeggiante) e quella sud-est (detta anche "cima maschile" per la sua forma allungata).
Har Karkom si trova a metà strada tra Kadesh Barnea e Petra; dista 35 km da Mitzpe Ramon, lungo la Route 40 che porta a Eilat. Esistono due percorsi per raggiungere l'altopiano sommitale:
- Il primo, da ovest, più facile e comunemente usato, è il più lungo ma anche il meno ripido. L'avvicinamento può avvenire con autoveicoli fino all'inizio della salita verso l'altopiano, dopodiché occorre proseguire a piedi o in dromedario con la guide locali.
- Il secondo percorso (che risale a epoca preistorica), da est, è più diretto e ripido: parte dal deserto di Paran, con una salita tra sfasciumi rocciosi, attraversando una zona considerata un santuario paleolitico con colonne di pietra dalle figure antropomorfe e giungendo così all'altopiano sommitale.
Har Karkom come possibile candidato per il Monte Sinai:
Partendo dal presupposto che gli Israeliti avrebbero forse attraversato la penisola del Sinai in direzione di Petra secondo una linea retta, un certo numero di studiosi ha ipotizzato che Har Karkom potesse essere il Monte Sinai biblico.
Secondo il Deuteronomio (Deuteronomio 1:2), agli Israeliti occorsero 11 giorni per spostarsi dall'Horeb (Monte Sinai biblico) a Kadesh Barnea nel nord del Sinai ("Vi sono 11 giornate dall'Horeb, per la via del monte Seir, fino a Kadesh Barnea"). Questa indicazione permette di limitare la localizzazione del Monte Sinai biblico entro 100 km circa da Kadesh Barnea. Tenendo inoltre presente che necessariamente un percorso doveva permettere di raggiungere giornalmente almeno un pozzo per abbeverare il bestiame che gli Israeliti avevano al seguito, è stato possibile ipotizzare che il monte Horeb coincidesse con Jabal Ideid, l'attuale Har Karkom.
Sulla cima nord-ovest si trova un anfratto, in grado di ricoverare una persona, che è stato interpretato dall'archeologo Emmanuel Anati come la grotta in cui Mosè si sarebbe rifugiato secondo la tradizione, per non rimanere abbagliato dal passaggio di Yahweh, quando ricevette le tavole dei 10 comandamenti.
L'esistenza, inoltre, di due cime contrapposte corrispondenti al monte dove Mosé avrebbe ricevute le tavole della Legge e al monte Horeb permette di identificare Har Karkom con il monte descritto dal Diario di Egeria, una pellegrina che visitò la Palestina verso la fine del IV secolo. L'identificazione di Har Karkom col Monte Sinai e l'Oreb della Bibbia sarebbe quindi confermata dalla tradizione cristiana dei primi secoli.
Seguendo questa teoria, Emmanuel Anati ha così effettuato varie campagne di scavo presso Har Karkom, scoprendo che è stata uno dei maggiori centri di culto del periodo paleolitico, con il suo altopiano costellato di luoghi di culto, altari, circoli di pietra, pilastri antropomorfi e oltre 40.000 petroglifi. A differenza di Gebel Musa, il monte posto nella Penisola del Sinai e noto ai turisti come Monte Sinai, nei cui pressi è il monastero di Santa Caterina, dove però non sono mai stati ritrovati petroglifi o comunque segni di civilizzazione se non successiva al IV secolo d.C.
Sulla base dei ritrovamenti, che sembrano avvalorare quanto contenuto nelle Antiche Scritture in merito al soggiorno degli Israeliti nel deserto, Anati ritiene pertanto di poter identificare Har Karkom (Jabal Ideid) con il Monte Sinai, con un massimo delle attività di carattere religioso intorno agli anni 2350-2000 a.C. e l'abbandono della montagna intorno al 1950-1000 a.C. L'Esodo viene da lui datato intorno al 1600-1200 a.C.
Tra questi è di particolare importanza il ritrovamento di 12 steli e una pietra piatta che ricordano altari per le offerte (Esodo 24,4, "Mosè scrisse tutte le parole del Signore, poi si alzò di buon mattino e costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d'Israele").
Critiche
Alcuni studiosi hanno avversato l'identificazione di questa montagna col Monte Sinai della Bibbia in quanto sposterebbe indietro di almeno 1000 anni alcune vicende narrate dal Vecchio Testamento e richiederebbe una revisione delle zone tradizionalmente ritenute abitate da Madianiti, Amaleciti e altre antiche popolazioni.
venerdì 29 aprile 2016
Carpe diem
Q. Horatius Flaccus
Carmina 1,11
Tù 2 ne quaèsierìs 3, scìre nefàs 4, quèm mihi, quèm tibi
fìnem dì dederìnt, Lèuconoè 5, nèc Babylònios
tèmptarìs numeròs 6. Ùt 7 meliùs, quìdquid erìt, pati,
sèu plùris 8 hiemès sèu tribuìt 9 Iùppiter ùltimam,
quaè nunc òppositìs dèbilitàt pùmicibùs 10 mare
Tyrrhenùm: sapiàs 11, vìna liquès 12 èt spatiò brevi
spèm longàm resecès. Dùm loquimùr, fùgerit ìnvida
aètas 13: càrpe 14 dièm, quàm minimùm crèdula pòstero
Non domandare, Leuconoe - non è dato sapere - che
destino gli dei hanno assegnato a me e a te, né consulta
gli oroscopi. Com’è meglio tollerare ciò che sarà, sia che Giove
ci abbia dato ancora tanti inverni sia che questo, che sfianca
il mar Tirreno con rocce di pomice, sia l’ultimo: sii assennata,
purifica il vino e recidi la duratura speranza, ché la vita è breve.
Mentre parliamo, se ne va il tempo geloso:
cogli l’attimo, e non fidarti per nulla del domani.
fìnem dì dederìnt, Lèuconoè 5, nèc Babylònios
tèmptarìs numeròs 6. Ùt 7 meliùs, quìdquid erìt, pati,
sèu plùris 8 hiemès sèu tribuìt 9 Iùppiter ùltimam,
quaè nunc òppositìs dèbilitàt pùmicibùs 10 mare
Tyrrhenùm: sapiàs 11, vìna liquès 12 èt spatiò brevi
spèm longàm resecès. Dùm loquimùr, fùgerit ìnvida
aètas 13: càrpe 14 dièm, quàm minimùm crèdula pòstero
Non domandare, Leuconoe - non è dato sapere - che
destino gli dei hanno assegnato a me e a te, né consulta
gli oroscopi. Com’è meglio tollerare ciò che sarà, sia che Giove
ci abbia dato ancora tanti inverni sia che questo, che sfianca
il mar Tirreno con rocce di pomice, sia l’ultimo: sii assennata,
purifica il vino e recidi la duratura speranza, ché la vita è breve.
Mentre parliamo, se ne va il tempo geloso:
cogli l’attimo, e non fidarti per nulla del domani.
lunedì 26 ottobre 2015
La forza dei simboli - Il Pastorale
Il pastorale (o
vincastro) è una sorta di bastone, dall'estremità ricurva e spesso
riccamente decorata, usato dal vescovo nei pontificali e nelle
cerimonie più solenni.
È in uso presso
varie chiese cristiane a ordinamento episcopale, tra cui la Chiesa
cattolica, l'ortodossa, l'anglicana e la luterana.
A imitazione di
quello usato dai pastori veri, il bastone simboleggia chiaramente e
visibilmente la funzione di cura della fede e della morale che
l'ufficio episcopale ha sopra la porzione di popolo cristiano a lui
affidata, e rimanda direttamente al Vangelo secondo Giovanni nel
quale Cristo si autodefinisce "Buon Pastore".
Secondo
Sant'Ambrogio, il bastone pastorale deve essere al fondo appuntito
per spronare i pigri, nel mezzo diritto per condurre i deboli, in
alto ricurvo per radunare gli smarriti.
Nell'antichità il
pastorale venne usato dai Faraoni (Hekat) per simboleggiare il potere
della sovranità. Era considerato sacro e ad uso esclusivo del
Faraone o di alti ufficiali.
Il pastorale dei
vescovi della Chiesa Cattolica deriverebbe propriamente dal
vincastro, un bastone costituito da un ramo di salice da vimini
(salix viminalis) utilizzato principalmente dal pastore per guidare
il gregge, ma anche per allontanare dalle pecore animali come cani
randagi o lupi (il salice da vimini è detto anche vinco, da cui
vincastro per l'aggiunta del suffisso peggiorativo -astro e in senso
esteso vincastro è sinonimo di bastone). Questo bastone è lungo
all'incirca come la persona che lo possiede, viene impugnato circa a
due terzi della sua altezza in modo da essere comodo per sostenere
parte del peso durante il cammino e reca sulla sommità superiore una
sorta di ricciolo ricurvo tipicamente utilizzato per portare alcuni
piccoli sacchi per il viaggio. Talvolta può essere di legno di
olivo, ma è meno utilizzato a causa del maggior peso e minore
praticità d'uso.
lunedì 19 ottobre 2015
L'importanza dei riti
Da “Il Piccolo
Principe” di Antoine de Saint-Exupéry
In quel momento apparve la volpe.
"Buon giorno", disse la volpe.
"Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
"Sono qui", disse la voce, "sotto al melo..."
"Chi sei?" domando' il piccolo principe, "sei molto carino..."
"Sono una volpe", disse la volpe.
"Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, sono così triste..."
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomestica".
"Ah! scusa", fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
"Che cosa vuol dire «addomesticare»?"
"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?"
"Cerco gli uomini", disse il piccolo principe.
"Che cosa vuol dire «addomesticare»?"
"Gli uomini" disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. E' molto noioso! Allevano anche delle galline. E' il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?"
"No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire «addomesticare»?"
"E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire «creare dei legami»..."
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io saro' per te unica al mondo".
"Comincio a capire" disse il piccolo principe. "C'e' un fiore... credo che mi abbia addomesticato..."
"E' possibile", disse la volpe. "Capita di tutto sulla Terra..."
"Oh! non e' sulla Terra", disse il piccolo principe.
La volpe sembro' perplessa:
"Su un altro pianeta?"
"Si".
"Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?"
"No".
"Questo mi interessa. E delle galline?"
"No".
"Non c'e' niente di perfetto", sospiro' la volpe. Ma la volpe ritorno' alla sua idea:
"La mia vita e' monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio percio'. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sara' illuminata. Conoscero' un rumore di passi che sara' diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi fara' uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiu' in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me e' inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo e' triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sara' meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che e' dorato, mi fara' pensare a te. E amero' il rumore del vento nel grano..."
La volpe tacque e guardo' a lungo il piccolo principe:
"Per favore... addomesticami", disse.
"Volentieri", disse il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, pero'. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose".
"Non ci conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno piu' tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose gia' fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno piu' amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!"
"Che cosa bisogna fare?" domando' il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti sederai un po' lontano da me, cosi', nell'erba. Io ti guardero' con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' piu' vicino..."
Il piccolo principe ritorno' l'indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe.
"Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincero' ad essere felice. Col passare dell'ora aumentera' la mia felicita'. Quando saranno le quattro, incomincero' ad agitarmi e ad inquietarmi; scopriro' il prezzo della felicita'! Ma se tu vieni non si sa quando, io non sapro' mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti".
"Che cos'e' un rito?" disse il piccolo principe.
"Anche questa e' una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe. "E' quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'e' un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi e' un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza".
Cosi' il piccolo principe addomestico' la volpe.
E quando l'ora della partenza fu vicina:
"Ah!" disse la volpe, "... piangero'".
"La colpa e' tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi..."
"E' vero", disse la volpe.
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
"E' certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano".
Poi soggiunse:
"Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua e' unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalero' un segreto".
Il piccolo principe se ne ando' a rivedere le rose.
"Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora e' per me unica al mondo".
E le rose erano a disagio.
"Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si puo' morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, e' piu' importante di tutte voi, perche' e' lei che ho innaffiata. Perche' e' lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perche' e' lei che ho riparata col paravento. Perche' su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perche' e' lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perche' e' la mia rosa".
E ritorno' dalla volpe.
"Addio", disse.
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale e' invisibile agli occhi".
"L'essenziale e' invisibile agli occhi", ripete' il piccolo principe, per ricordarselo.
"E' il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa cosi' importante".
"E' il tempo che ho perduto per la mia rosa..." sussurro' il piccolo principe per ricordarselo.
"Gli uomini hanno dimenticato questa verita'. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa..."
"Io sono responsabile della mia rosa..." ripete' il piccolo principe per ricordarselo.
mercoledì 30 settembre 2015
L'Incenso
Tratto da "Culmine e Fonte", n.2/2000: L'incenso, di Vittoria Scanu. Sito www.nostreradici.it
Nel Culto d'Israele
Nel Cristianesimo
In Gerusalemme
Liturgia celeste
L'incensazione
«Come incenso salga a Te la mia preghiera» (Sal 140,2)
L'incenso
è una gommoresina odorosa che, bruciando, profuma l'aria, la
purifica, la rende gradevole all'olfatto e, nei sacri riti,
predispone lo spirito all'incontro con Dio.
Questa
resina preziosa è prodotta da un arbusto che cresce spontaneamente
in Asia e in Africa. L'incenso
sgorga sotto forma di gocce dalle incisioni che vengono praticate
sulle piante che lo producono, e solidifica al contatto con l'aria.
La prima secrezione della pianta non ha alcun valore e viene gettata
via, la seconda è ritenuta mediocre e, soltanto la terza dà il
prezioso incenso, conosciuto fin dall'antichità da popoli di lingue
e culture diverse.
Usato
in molte e differenti occasioni, l'incenso è legato ad una ricca
simbologia profana e religiosa.
Alcuni
popoli orientali che praticavano il culto dei morti, credevano che il
fumo dell'incenso, salendo verso il cielo, guidasse le anime dei
defunti nell'al di là.
Presso
i pagani, l'incenso veniva bruciato davanti alle immagini degli dei e
davanti all'imperatore ad essi equiparato.
Nei
primi secoli del cristianesimo, numerosi cristiani furono
martirizzati per essersi rifiutati di compiere questo gesto
idolàtrico. In seguito, per distinguere il culto cristiano da quello
pagano, fu soppresso l'uso dell'incenso dalla liturgia e venne
ripristinato soltanto dopo l'editto di Costantino e la fine del
paganesimo.
Nel Culto d'Israele
Diamo
ora un rapido sguardo alla presenza dell'incenso nella liturgia
dell'Antico Testamento, iniziando dalla narrazione biblica in cui
Mosè ricevette dal Signore l’ordine di costruire un altare
speciale riservato all’incenso e legato al culto divino.
“Farai un altare sul quale bruciare l’incenso: lo farai di legno di acacia (...). Rivestirai d’oro puro il suo piano, i suoi lati, i suoi corni e gli farai intorno un bordo d’oro (...). Porrai l’altare davanti al velo che nasconde l’arca della Testimonianza, di fronte al coperchio che è sopra la testimonianza, dove io ti darò convegno. Aronne brucerà su di esso l’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina quando riordinerà le lampade e lo brucerà anche al tramonto, quando Aronne riempirà le lampade: incenso perenne davanti al Signore per le vostre generazioni (...). È cosa santissima per il Signore” (Es 30,1-10).
L’incenso,
veniva posto anche sopra le oblazioni bruciate sull’altare come
memoriale: “profumo soave per il Signore” (Cfr Lv 2).
Più
tardi, nel Tempio di Gerusalemme, nella ricorrenza annuale della
grande Espiazione ( in ebraico: Yom
Kippur),
il sommo sacerdote, oltrepassava il velo del Tempio ed entrava con
l’incensiere nel Santo dei Santi, per bruciarvi “due manciate di
incenso odoroso polverizzato”, allora, una nube densa e profumata,
avvolgeva ogni parte del luogo santissimo in cui era custodita l’Arca
dell’Alleanza (Cfr Lv16,12-13).
La
resina profumata dell’incenso, era fra i balsami pregiati che
componevano l’olio dell’unzione sacra, usato per la consacrazione
del santuario, del Sommo Sacerdote Aronne e dei suoi figli (Cfr Es
30,22ss). In Israele, si incensavano le persone, gli
oggetti, e i luoghi riservati al culto del Dio Unico. Tutti coloro
che partecipavano al culto divino, erano invitati ad effondere un
soave profumo spirituale: “Ascoltate, figli santi...Come incenso
spandete un buon profumo” (Sir 39,13-14).
Nel Cristianesimo
All'inizio
del Vangelo di Luca, troviamo una figura straordinaria: il Sacerdote
Zaccaria. Egli sta tra l’Antico e il Nuovo Testamento ed ha un
ruolo molto importante nella storia della salvezza. Questo sacerdote
dell’Antica Alleanza, ha ricevuto un annuncio speciale da parte di
Dio mentre “officiava davanti al Signore nel turno della sua
classe”.
Zaccaria
si trovava nel Santo (l’ambiente del Tempio di Gerusalemme che
precedeva il Santo dei Santi) per “fare l’offerta dell’incenso.
Tutta l’assemblea del popolo pregava fuori nell’ora dell’incenso.
Allora gli apparve un angelo del Signore, ritto alla destra
dell’altare dell’incenso” (Lc 1,9-11).
Era
l’angelo Gabriele che recava al vecchio sacerdote l’annuncio
della nascita di Giovanni Battista. Il luogo, l’ora e il compito
sacerdotale che Zaccaria si apprestava a svolgere, situano l’annuncio
della nascita del Battista in un clima sacro di preghiera
e di offerta spirituale.
L’incenso,
legato al culto degli Israeliti, sarà più tardi presente, con la
sua ricca valenza simbolica, anche nella liturgia cristiana,
soprattutto nella Chiesa di oriente.
Nel
Vangelo di Matteo, viene descritto l’omaggio fatto a Gesù da
alcuni personaggi misteriosi: i Magi. Costoro, giungendo dalle
lontane terre di oriente per incontrare il “re dei Giudei”, gli
offrono in dono, con l’oro e la mirra, anche l’odoroso incenso,
custodito in scrigni preziosi ( Cfr Mt 2,11).
In Gerusalemme
Nel
IV secolo dell’Era cristiana, la famosa pellegrina Egeria, così
descriveva una liturgia svoltasi nel Santo Sepolcro di Gerusalemme:
“Quando si sono cantati questi tre salmi e fatte queste tre
orazioni, ecco che vengono portati dei turiboli all’interno della
grotta dell’Anastasi, perché tutta la basilica dell’Anastasi si
riempia di profumi”.[1]
La
solenne incensazione della grotta sacra in cui Cristo è risorto,
precedeva la lettura, da parte del vescovo, del Vangelo della
risurrezione. L’uso dell’incenso nel Santo Sepolcro, ripropone
l’immagine delle donne che portarono oli aromatici per imbalsamare
il corpo del Signore e trovarono invece l’angelo che ne annunciava
la gloriosa risurrezione (Cfr Mc 1,6).
Secondo
San Paolo, tutti i cristiani, con la loro testimonianza di fede,
spandono nel mondo il profumo di Cristo che si è offerto al Padre
“in sacrificio di soave odore”(Cfr 2Cor 2,14-16; Ef 5,2).
Liturgia celeste
Nella
Gerusalemme celeste, Giovanni vide rappresentato in modo
straordinario il rituale a lui noto del Tempio di Gerusalemme, con
l’offerta odorosa e incruenta dell’incenso, simbolo della
preghiera adorante di tutti i redenti.
“Poi
venne un altro angelo e si fermò all’altare, reggendo un
incensiere d’oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse
insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull’altare
d’oro, posto davanti al trono. E dalla mano dell’angelo il fumo
degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi”
(Ap 8,3-4).
L'incensazione
“L’uso
dell’incenso è facoltativo in qualsiasi forma di Messa. Si può
usare l’incenso:
a) durante la processione d’ingresso;
b) all’inizio della Messa, per incensare l’altare;
c) alla processione e alla proclamazione del Vangelo;
d) all’offertorio, per incensare le offerte, l’altare, il sacerdote e il popolo;
e) all’ostensione dell’ostia e del calice dopo la consacrazione.” (PNMR 235).
L’incensazione
delle persone va intesa sempre in riferimento alla loro condizione di
battezzati: figli di Dio e tempio dello Spirito Santo. Lo stesso
dicasi dei defunti, i cui corpi sono stati santificati in vita dai
sacramenti e attendono la risurrezione finale.
Incensare
muovendo il turibolo in forma di croce, rievoca la morte in croce del
Signore; mentre l’incensazione circolare, significa che i doni e le
offerte sono stati circoscritti, riservati cioè al culto divino.
Pur
essendo facoltativo, l’uso dell’incenso dona solennità alle
celebrazioni liturgiche e crea un clima di sacra riverenza.
Iscriviti a:
Post (Atom)