giovedì 10 agosto 2017

Il Paradiso

Da Wikipedia:

Il termine paradiso possiede due significati: il primo indica, nella tradizione biblica, quel luogo primordiale dove Dio collocò l'uomo appena creato (Genesi, 2); il secondo indica, nell'ambito delle teologie fondate sull'interpretazione dei testi biblici, quel luogo, celeste o terrestre, dove verranno destinati gli uomini da Dio giudicati come "giusti". Nel significato traslato della seconda accezione, con il termine "paradiso" si rendono termini di altre lingue, e di altre religioni, che indicano analoghe credenze in un luogo felice, post-mortem, riservato a coloro che hanno condotto una vita da "giusti".


Origine del termine "paradiso"

Il termine italiano "paradiso" (così come l'inglese paradise, il francese paradis, il tedesco paradies e lo spagnolo paraíso) viene dal latino ecclesiastico paradīsus, a sua volta adattamento dal greco biblico παράδεισος (parádeisos), nell'intenzione di rendere il termine ebraico גן (gan, "giardino") ovvero "giardino [dell'Eden]".

Il termine greco antico παράδεισος deriverebbe dal ricostruito medio iranico, *pardēz, mentre è correlato all'attestato antico iranico, precisamente avestico, pairidaēza, dove tuttavia non possiede alcun significato religioso, indicando il "recinto", derivando in quella lingua da pairidaēz (murare intorno, circondare con mura), quindi da paìri (intorno) + daēz (accumulare). All'avestico pairidaēza sono correlati i ricostruiti antico persiano *paridaida e il medo *paridaiza.

l termine di ambito iranico pairidaēza/*paridaida, partendo dall'originario significato di "recinto", "luogo recintato", indica quindi quei giardini, o meglio parchi, privati e cintati, propri dei sovrani dell'Impero achemenide, i quali ne ereditarono l'uso dagli Assiri[4]. Tali pairidaēza consistevano in una parte coltivata a giardino e in un'altra lasciata selvaggia, riserva di caccia per i re.

Nei testi in lingua greco antica è attestata l'esistenza di tali "giardini" persiani (il testimone più antico è in Wilhelm Dittenberge, Sylloge Inscriptionum Graecarum, 2), mentre la loro prima descrizione è in Senofonte (430/425-355 a.C.) Economico (IV, 20 e sgg.), presente in altre opere dello stesso autore (cfr. ad esempio Anabasi, I, 2,7).

Il termine, di origine iranica, entra nelle lingue semitiche con l'accadico pardēsu già col significato di "giardino", "parco"[8]; mentre il suo diretto corrispondente in ebraico lo si riscontra invece nella bibbia in lingua ebraica, ad esempio con il termine פרדס (pardês), per sole tre volte: Neemia, 2,8; Qoèlet, 2,5; Cantico dei Cantici, 4,13, avente qui, tuttavia, il significato di "frutteto", o "bosco"; successivamente il termine verrà utilizzato anche nella letteratura rabbinica (cfr., ad esempio, nel Talmud, Ḥagigah 14b, dove tuttavia già acquisisce implicitamente il significato di "luogo di beatitudine celestiale").

Il mito sumerico di Dilmun, il "paradiso" come luogo primordiale

La prima attestazione del mito del "paradiso terrestre è inserita nel racconto in lingua sumerica, datato al II millennio a.C., conosciuto con il titolo di Enki e Ninḫursaĝa. Qui sopra la riproduzione della seconda linea della tavola: La terra di Dilmun è pura.

La credenza in un primordiale luogo paradisiaco attiene, originariamente, alla letteratura religiosa in lingua sumerica, segnatamente al testo in 284 versi, indicato sotto il nome di Enki e Ninḫursaĝa (inizi II millennio a.C.), la quale individuava nel Dilmun quel posto privo di sofferenze, di privazioni e di affanni.

La nozione iranica del garō.dəmāma (Casa del canto): il "paradiso" come luogo, post mortem, riservato ai giusti

La credenza in un "giudizio dei morti", e quindi in un luogo di felicità riservato a coloro che in vita scelsero il "bene" piuttosto che il "male", risulterebbe presente nelle parti più antiche del libro sacro della religione mazdeista (conosciuta anche come "zoroastrismo"), l'Avestā, influenzando profondamente le successive credenze proprie dell'ebraismo, del cristianesimo, del manicheismo e dell'islām .

Tali parti antiche, indicate con il termine gāθā, sono infatti, per la maggior parte degli studiosi, attribuibili direttamente al profeta iranico Zarathuštra, vissuto, secondo le ipotesi più recenti attestate da una verifica filologica e archeologica, plausibilmente nell'Età del Bronzo, tra il XVIII e il XV secolo a.C. in Asia Centrale.

Il termine più frequente per indicare questo "paradiso" dei giusti è in lingua avestica garō.dəmāma (antico avestico; in avestico recente garō.nmāna) lett. "Casa del canto".


La visione religiosa propria dell'insegnamento del profeta iranico Zarathuštra consiste nella credenza in un dio unico, Ahura Mazdā, creatore di ogni cosa. A questo Dio si oppone Angra Mainyu, spirito inizialmente da lui creato, insieme ad altri "spiriti", come votato al bene, ma a lui ribelle, acquisendo per questo la natura di "spirito del male". Questa opposizione cosmica tra Bene e Male riguarda sia il mondo sovrasensibile, in quanto agli spiriti del "bene", gli Ameša Spenta, si oppongono quegli spiriti del "male", i Daēva, che hanno seguito nella ribellione Angra Mainyu, ma anche l'uomo chiamato nella sua vita a scegliere tra il "bene" e il "male".

La scelta dell'uomo verrà quindi o premiata o punita da Ahura Mazdā quando, alla fine dei tempi, sconfiggerà definitivamente Angra Mainyu e le schiere demoniache a lui fedeli.

Inoltre, secondo alcuni studiosi, in tale contesto arcaico di dottrine religiose vi è anche un'esplicita dottrina inerente alla resurrezione dei corpi.

Le nozioni di "paradiso" nell'ebraismo biblico, del Secondo Tempio e rabbinico

« ח ויטע יהוה אלהים גן בעדן--מקדם וישם שם את האדם אשר יצר ט ויצמח יהוה אלהים מן האדמה כל עץ נחמד למראה וטוב למאכל--ועץ החיים בתוך הגן ועץ הדעת טוב ורע י ונהר יצא מעדן להשקות את הגן ומשם יפרד והיה לארבעה ראשים יא שם האחד פישון--הוא הסבב את כל ארץ החוילה אשר שם הזהב יב וזהב הארץ ההוא טוב שם הבדלח ואבן השהם יג ושם הנהר השני גיחון--הוא הסובב את כל ארץ כוש יד ושם הנהר השלישי חדקל הוא ההלך קדמת אשור והנהר הרביעי הוא פרת טו ויקח יהוה אלהים את האדם וינחהו בגן עדן לעבדה ולשמרה »

« Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre attorno a tutta la regione di Avìla, dove si trova l'oro e l'oro di quella regione è fino; vi si trova pure la resina odorosa e la pietra d'ònice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre attorno a tutta la regione d'Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l'Eufrate. Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. »

In questo passo di Genesi (libro in lingua ebraica che si ritiene composto intorno al VI secolo a.C.) troviamo dunque l'espressione גן־בעדן (gan bə‘êḏen, "giardino in Eden"), quindi il nome del "paradiso terrestre" in cui ai primordi della storia dell'uomo, il dio suo creatore collocò il primo uomo "Adamo". Altri passi della Bibbia si riferiscono a questo stesso "paradiso terrestre" con altri nomi:

- כגן־יהוה: kə-ḡan- YHWH, "come il giardino di YHWH" (come il giardino di Dio), in Genesi 13,10;
- בעדן גן־אלהים: bə-‘ê-ḏen gan-'ĕ-lō-hîm, "in Eden giardino di Elohim" (in Eden il giardino di Dio), in Ezechiele 28,13.

In questo giardino si consuma quel mito biblico in cui Adamo, convinto da Eva, a sua volta sedotta dal "serpente" (הנחש, nâchâsh) mangia il frutto "dell'albero della conoscenza del bene e del male" ( ועץ הדעת טוב ורע, wə-‘êṣ had-da-‘aṯ ṭō-wḇ wā-rā‘) e per questo verrà cacciato da Dio insieme alla compagna dal giardino di Eden affinché non mangiassero anche il frutto dell'"albero della vita" (ועץ החיים, wə-‘êṣ ha-ḥay-yîm) divenendo così immortali (Genesi 3). Il che potrebbe significare che mangiando dell'"albero della conoscenza del bene e del male", la coppia umana avrebbe potuto identificare l'"albero della vita", altrimenti nascosto, e questo spiegherebbe anche la ragione per cui il serpente, anche lui interessato all'immortalità, avrebbe convinto Eva a violare il comando divino.

L'origine del significato del nome ebraico Eden è sconosciuto, fino a qualche decennio fa lo si riteneva eredità diretta del termine accadico edinu, a sua volta resa del sumerico edin, col significato di "piana", "steppa". Tuttavia la scoperta nel 1979, a Tell Fekheriyeh (al confine tra la Turchia e la Siria), di una iscrizione bilingue accadico-antico aramaico risalente al IX secolo a.C. ne confermerebbe il collegamento alla radice del semitico occidentale *dn (lussureggiante, gradevole), quindi col significato di "delizioso", "[giardino] delle delizie".

Se è evidente il debito biblico nei confronti del racconto sumerico, e di analoghi in contesto mesopotamico, nella Bibbia tale ambito di "paradiso terrestre" supporta un racconto dagli evidenti contenuti morali.

Le nozioni di "caduta" e di "peccato originale" dell'uomo, derivati dalla violazione del divieto divino di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, non attengono originariamente alle esegesi ebraiche ma solo a quelle di derivazione cristiana, entrando tardivamente nell'ebraismo grazie alla letteratura cabalistica medievale.

Come vedremo meglio più avanti, la letteratura rabbinica medievale distinguerà due Eden, quello "terrestre", luogo della coppia umana primordiale, e quello "celeste", luogo di beatitudine per le anime giudicate da Dio come "giuste".

Le dottrine ebraiche inerenti all'aldilà

« Nell'Ebraismo il concetto di al di là prese forma gradualmente e non fu mai espresso in una forma dogmatica o sistematica. L'idea ebraica di aldilà si è concentrata sulla credenza nella resurrezione della carne o nell'immortalità dell'anima. Sebbene queste concezioni siano state presenti, separatamente o insieme, in ogni epoca della storia ebraica, si può affermare con sicurezza che trovarono il loro maggiore sviluppo durante il periodo rabbinico medievale. »
(David Stern, Enciclopedia delle religioni vol.6, Milano, Jaca Book, (1987) 1993 p.17)

Nel testo biblico vi sono due indirizzi per il destino dei defunti: da una parte quello di tornare polvere in quanto si era polvere (Genesi, 2,7; 3,19), oppure a seguito della punizione divina dopo il "peccato" dei progenitori dell'umanità (Genesi, 3, 22-24), ma in altri passi biblici (ad esempio: Isaia, 14, 9-12; Ezechiele, 32,17-32) il destino degli uomini è quello di scendere nello אול (she'ol, gli "inferi"), luogo da cui non si risale. Tale luogo viene indicato anche con il termine ... ארץ חשך (ʾereẓ ḥōšeḵ) col significato di "terra di tenebra".


« כלה ענן וילך כן יורד אול לא יעלה »

« Una nube svanisce e se ne va, così chi scende agli inferi più non risale; »
(Libro di Giobbe, 7,9.)

Tali termini e nozioni sono strettamente correlati alla cultura religiosa mesopotamica.

Ma al Dio della Bibbia è riservato il potere di resuscitare chi è morto:

« יהוה ממית ומחיה מוריד שאול ויעל »

« Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire. »
(I Samuele, 2,6)

Tuttavia ci sono due eccezioni bibliche di uomini che non sono scesi nello she'ol per sempre: Enoch (Genesi, 5,24) ed Elijah (II Re 2,11); la loro condizione è analoga alla narrazione soprariportata del sumerico Ziusudra (il Noè sumerico, in ulteriore letteratura in lingua accadica, come il Poema di Atraḫasis o nell' Epopea di Gilgameš, conosciuto anche come Atraḫasis o Utanapištim).

Il più antico testo biblico che tratta della resurrezione dei morti è in Daniele 12,1-2, opera apocalittica risalente al II secolo a.C. redatta durante le persecuzioni di Antioco IV:


« א ובעת ההיא יעמד מיכאל השר הגדול העמד על בני עמך והיתה עת צרה אשר לא נהיתה מהיות גוי עד העת ההיא ובעת ההיא ימלט עמך כל הנמצא כתוב בספר ב ורבים מישני אדמת עפר יקיצו אלה לחיי עולם ואלה לחרפות לדראון עולם ס »

« Ora, in quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Sarà un tempo di angoscia, come non c'era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna. »
(Daniele, 12,1-2)

Tale nozione di "resurrezione" non riguarda, tuttavia, l'intero genere umano, ma solo agli appartenenti al popolo di Israele, più precisamente allo scopo di sostenere il valore del martirio e quindi della sua ricompensa (o punizione per i nemici).

Questa idea di "resurrezione" va tuttavia distinta dall'idea di "immortalità" dell'anima che invece entra nell'ebraismo della Diaspora da analoghe nozioni proprie della cultura greco-romana.

Tale idea di immortalità dell'anima la si riscontra, ad esempio, nel libro giunto a noi in lingua greca, La sapienza di Salomone (II-I secolo a.C.; testo non accolto nella Bibbia in lingua ebraica, la cui canonizzazione risale al Medioevo):

« 1 δικαίων δὲ ψυχαὶ ἐν χειρὶ θεοῦ καὶ οὐ μὴ ἅψηται αὐτῶν βάσανος2 ἔδοξαν ἐν ὀφθαλμοῖς ἀφρόνων τεθνάναι καὶ ἐλογίσθη κάκωσις ἡἔξοδος αὐτῶν 3 καὶ ἡ Ἀφ᾿ ἡμῶν πορεία σύντριμμα οἱ δέ εἰσιν ἐνεἰρήνῃ 4 καὶ γὰρ ἐν ὄψει ἀνθρώπων ἐὰν κολασθῶσιν ἡ ἐλπὶς αὐτῶνἀθανασίας πλήρης 5 καὶ ὀλίγα παιδευθέντες μεγάλα εὐεργετηθήσονταιὅτι ὁ θεὸς ἐπείρασεν αὐτοὺς καὶ εὗρεν αὐτοὺς ἀξίους ἑαυτοῦ 6 ὡςχρυσὸν ἐν χωνευτηρίῳ ἐδοκίμασεν αὐτοὺς καὶ ὡς ὁλοκάρπωμα θυσίαςπροσεδέξατο αὐτούς 7 καὶ ἐν καιρῷ ἐπισκοπῆς αὐτῶν ἀναλάμψουσινκαὶ ὡς σπινθῆρες ἐν καλάμῃ διαδραμοῦνται 8 κρινοῦσιν ἔθνη καὶκρατήσουσιν λαῶν καὶ βασιλεύσει αὐτῶν κύριος εἰς τοὺς αἰῶνας 9 οἱπεποιθότες ἐπ᾿ αὐτῷ συνήσουσιν ἀλήθειαν καὶ οἱ πιστοὶ ἐν ἀγάπῃπροσμενοῦσιν αὐτῷ ὅτι χάρις καὶ ἔλεος τοῖς ἐκλεκτοῖς αὐτοῦ 10 οἱ δὲἀσεβεῖς καθὰ ἐλογίσαντο ἕξουσιν ἐπιτιμίαν οἱ ἀμελήσαντες τοῦδικαίου καὶ τοῦ κυρίου ἀποστάντες »
(
« 1. Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà. 2. Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, 3. la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. 4. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza resta piena d'immortalità. 5. In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé; 6. li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come l'offerta di un olocausto. 7. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno, come scintille nella stoppia correranno qua e là. 8. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro. 9. Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità, i fedeli nell'amore rimarranno presso di lui, perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti. La sorte degli empi 10. Ma gli empi riceveranno una pena conforme ai loro pensieri; non hanno avuto cura del giusto e si sono allontanati dal Signore. »
(La sapienza di Salomone, 3, 1-10)

Anche nelle opere del filosofo platonico ebreo di lingua greca, Filone di Alessandria (I sec. a.C.-I sec. d.C.), si presenta questa nozione di "anima immortale", opere, tuttavia, che non influenzarono il successivo ebraismo rabbinico.

« Infatti, come ora, finché siamo vivi, l'anima nostra è seppellita, per così dire, nel sepolcro del corpo, così,se moriamo, l'anima vive la vita che le è propria, perché si è sciolta dal legame del corpo: un cadavere <che è fonte> di male. »
(Filone di Alessandria, Allegoria delle Leggi, I, 108; traduzione di Roberto Radice, in Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico della Bibbia. Milano, Bompiani, 2011, p. 155)

Va dunque precisato che l'idea di "immortalità dell'anima" di derivazione greca implica un dualismo tra anima e corpo, quest'ultimo inteso come "prigione" peritura dell'anima da cui questa si deve liberare definitivamente; mentre l'idea di "resurrezione" intende congiungere l'anima e il corpo in una nuova vita maggiormente compiuta.

Per quanto l'argomento non sia stato frequentemente affrontato nella letteratura rabbinica, il tema dell'aldilà trova comunque una posizione ben chiara nella seguente affermazione contenuta nella Mishnah:

« מתני' כל ישראל יש להם חלק לעולם הבא »

« Tutto Israele ha un posto nel mondo a venire »
(Sanhedrin, dal Talmud Babilonese, 11,1)

a cui segue la spiegazione che tale "mondo a venire" è precluso a coloro che negano la "resurrezione dei morti".

Successivamente in questo modo precisata nel XII secolo dal filosofo e rabbino Maimonide:

« חסידי אומות העולם יש להם חלק לעולם הבא »

« I giusti di tutte le nazioni hanno un posto nel mondo a venire »
(Maimonide, Mishneh Torah, Teshuvah 3 Halacha 5)

« La dottrina rabbinica riguardante ricompensa e castigo nell'altro mondo ha le sue radici nella convinzione che anima e corpo si ricongiungeranno prima del giudizio finale. Sebbene il pensiero rabbinico fosse influenzato in ultima analisi dalle concezioni greco-romane di una esistenza dell'anima come entità separata, e sebbene vi siano alcune opinioni rabbiniche che attestino la credenza nell'immortalità dell'anima indipendentemente dalla nozione di resurrezione della carne. L'importanza assoluta che quest'ultima questione di fede ha rivestito per i rabbini è testimoniata dai notevoli sforzi di esegesi che essi hanno affrontato per trovare fonti che la riguardassero nella Torah [(...)] e nei frequenti riferimenti alla resurrezione presenti nei targunim. »
(David Stern, Op. cit.)


Nel cristianesimo

Paradiso nel cristianesimo è uno dei due stati (Inferno e Paradiso, il cattolicesimo ha introdotto nel Medioevo anche i dogmi relativi al Purgatorio) in cui vive l'uomo dopo la morte. Il Paradiso dopo la morte è l'unione definitiva tra Dio e l'Uomo, come viene simbolicamente visto nella Bibbia (Cantico dei cantici, Apocalisse) ed è la più profonda delle aspirazioni dell'uomo, conducendolo definitivamente alla felicità (v. I Corinzi, XIII, 12; I Giovanni, III, 2).

Nei libri dei Maccabei, libri deuterocanonici non inclusi nel canone ebraico e nei canoni protestanti, si esprime la certezza della risurrezione dei morti e della vita eterna. Eppure Qoelet (Ecclesiaste) 3,19-20 afferma:

« 19.Infatti la sorte degli uomini è la stessa che quella degli animali: come muoiono questi così muoiono quelli. Gli uni e gli altri hanno uno stesso soffio vitale, senza che l'uomo abbia nulla in più rispetto all'animale. Gli uni e gli altri sono vento vano.20.Gli uni e gli altri vanno verso lo stesso luogo: gli uni e gli altri vengono dalla polvere, gli uni e gli altri tornano alla polvere. »

Nella Bibbia la parola "Paradiso" compare in tre brani del Nuovo Testamento:

- (Vangelo di Luca 23:43) Quando uno dei malfattori crocifissi a destra e a sinistra di Gesù sgrida il suo compagno, il quale stava schernendo Gesù; in tale episodio il malfattore, resosi conto di essere giustamente condannato per le proprie opere malvagie, si rivolge a Gesù chiamandolo Signore, chiedendogli di ricordarsi di lui quando sarebbe venuto nel Suo regno. Gesù risponde allora affermando che il malfattore sarebbe stato con lui quel giorno stesso in Paradiso. Il malfattore, condannato dalla giustizia degli uomini, viene dunque assolto dalla condanna del peccato per mezzo della fede in Gesù Cristo. La via al Paradiso, il giardino di Eden, che la disubbidienza di Adamo ed Eva aveva reso inaccessibile all'uomo, viene riaperta da Colui che è la Via, la Verità e la Vita: Gesù Cristo

- (Seconda Lettera ai Corinzi 12:1-4) L'Apostolo Paolo riferisce indirettamente di una propria esperienza soprannaturale, nel quale egli, definendosi "un uomo in Cristo", riferisce di essere stato rapito fino al Terzo Cielo, in Paradiso, e di aver udito parole ineffabili, che non è lecito ad alcun uomo di proferire; tale brano colloca dunque il Paradiso in cielo - e non in terra o altrove, in un luogo accessibile solo a coloro che sono "in Cristo", ossia tutti coloro che come il malfattore in croce, riconoscono il proprio peccato davanti a Dio e ripongono in Gesù Cristo la loro fede e la loro speranza. Secondo la Parola di Dio non vi è dunque alcuno strumento "scientifico" o filosofico che possa rendere visibile ed accessibile il Paradiso all'uomo, ma solo la fede in Gesù Cristo.

- (Apocalisse 2:7) Gesù Cristo stesso riferisce nella lettera indirizzata alla chiesa di Efeso, che egli trasmette all'Apostolo Giovanni per mezzo di un angelo (Apocalisse 1:1), che Egli darà da mangiare dell'albero della vita, che è in mezzo al Paradiso di Dio, a colui che vince. Ciò mostra che l'albero della vita, di cui si era persa traccia dopo la cacciata di Adamo ed Eva dal giardino di Eden, non è scomparso, ma si trova ora nel Paradiso di Dio, che Paolo riferisce essere al Terzo Cielo, dunque non in terra. La vittoria di cui parla Gesù è quella di cui parla la Lettera ai Romani 8:37, la quale si ha in virtù della fede in Gesù Cristo, Colui che ha portato sulla croce il peccato di tutta l'umanità affinché per mezzo della fede in Lui l'uomo possa essere salvato dalla giustizia divina, diventare Figlio di Dio, ed accedere al Paradiso che il peccato ha reso inaccessibile.

Le dottrine protestanti contestano la convinzione di altre correnti cristiane secondo cui il Paradiso è accessibile mediante le buone opere compiute sulla terra, attribuendo dunque all'uomo la possibilità di scampare al giudizio divino mediante i propri meriti e la propria giustizia. Tali dottrine si rifanno ai seguenti passi:

- (Lettera agli Efesini 2:8) "Voi infatti siete stati salvati per grazia, mediante la fede, e ciò non viene da voi, è il dono di Dio"
- (Lettera ai Romani 5:1) "Giustificati dunque per fede, abbiamo pace presso Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore,"



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